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Sul finire degli anni sessanta, Gino Maretta affianca al lavoro sulla "natura artificiale" una nuova riflessione sulla storia dell'arte antica. Lo fa nel ciclo "Amore mio", per il quale sceglie solo figure femminili, che ricava guardando ora a Cranach, ora a Ingres, ora ad Hayez o a Tiziano, e che traduce in immagini inedite, "plastificate" e virate da una cromia artificiosa, in cui le figure entrano in cortocircuito con i materiali a cui via via vengono abbinate: ne è prova la sequenza delle Bagnanti di Ingres, delle Carlotta Chaber - la ballerina callipigia ritratta da Hayez sotto le sembianze di una Venere che gioca con le colombe -, delle Veneri di Lucas Cranach. Sono dipinti dalle forme fantasmatiche con smalti serigrafici dai colori acidi che si servono per di più come supporto di lastre ossidate di ferro, di zinco o di metacrilato: apparizioni, di cui si indovinano con difficoltà i contorni ma che restano tuttavia ben riconoscibili e che Maretta spesso qualifica, nel titolo stesso, con l'attributo di "artificiale". Accanto a queste immagini tratte dalla storia dell'arte figurano alcune provocanti Pin Up in guêpière e reggicalze, di schietto gusto anni sessanta, tratte dall'universo dei rotocalchi popolari o delle pubblicità pruriginose del tempo, eseguite anch'esse su metacrilato, ferro o zinco o addirittura su pelliccia, giocando sull'eloquente interferenza tra immagine e supporto. Infine, alcuni esempi suggestivi di "natura artificiale".